DUE ALCHIMISTI ITALIANI L'oro! non è esso il gran movente della società, il fattore più universale dell'incivilimento, il rappresentante di tutti i godimenti, la fonte del maggior di tutti, qual è l'indipendenza? Che stupirsi dunque se è cercato con mezzi sapienti, con laboriosi, con scellerati, con assurdi? Il titolo di questo racconto vi rimembra come, nel mentre l'arte si assottigliava per guadagnarne, la scienza presumesse crearne; cioè, mediante l'_arte ermetica_, scoprir un ingrediente che, imitando l'operazione della natura, i metalli ignobili tramutasse ne' due più preziosi. Come spesso fanno i fantastici, gli diedero un nome prima di possederlo; e la _pietra filosofale_ o la _polvere di projezione_ fu diuturno studio de' naturalisti, o speciale lucubrazione d'una specie di frammassoni, estesi da per tutto col nome di alchimisti. Io ebbi occasione di parlarne altrove forse non senza qualche diletto di quei pochi che ancora hanno il coraggio di leggere un libro che sia italiano e non sia romanzo[36]. Qui voglio soltanto soggiungere che, se v'ebbe de' bricconi tra gli alchimisti, i quali scroccavano l'oro colla promessa di fare oro, altri ve n'avea di buona fede, di longanime studio, d'ingenua abnegazione. Bernardo, nato da una famiglia di conti a Treviso il 1400, e conosciuto ne' fasti della _grand'arte_ col nome di Bernardo Trevisano, fu dei più leali ed ostinati cultori dell'alchimia. Geber e Rases, oracoli dei medici arabi, gli aveane istillato questa passione, e poichè la falsa scienza non meno che la vera pretendeva appoggiarsi sulle esperienze, tremila scudi egli consumò nel ripetere quelle che da essi maestri erano accennate. Poi si volse alle dottrine di Archelao e di Rupescissa, e «in quindici anni di prove (dic'egli) tanto in ciurmadori, quanto per me onde conoscerli, spesi da seimila scudi.» Cominciava a venirgli meno il coraggio e la speranza di trovar la pietra filosofale quando un suo compatriota insegnogli a farla col sal marino; ma in un anno e mezzo rinnovata quindici volte la prova e sempre fallitagli, scelse un altro metodo, qual era di sciogliere separatamente in acquaforte del mercurio e dell'argento; lasciatili così un anno mescolò le soluzioni e le concentrò sopra cenere calda in modo da ridurle a due terzi; questo residuo espose al sole in una storta, poi lasciollo cristallizzare durante cinque anni; alla fin dei quali trovò... null'altro che quel che vi avea messo. E Bernardo era giunto ai 46 anni, sempre tentonando, eppure non si disingannò; anzi avventurossi per un'altra via, insegnatagli da maestro Goffredo, frate cistercense. Eccovela. Comprarono duemila uova di gallina, le fecero sodare, e levatone il guscio, lo calcinarono al fuoco; separarono i tuorli dall'albume, e li fecero fermentare a parte entro fimo di cavallo, poi li distillarono trenta volte, finchè ne ottennero un liquido bianco, e un liquido rosso. Più volte si rifecero da capo, variarono le combinazioni; e il sapere che non ne trassero alcun frutto non vi farà tanta meraviglia, quanto vi piacerebbe il sapere da quali argomentazioni fossero condotti a ripromettersi effetti, così divergenti dalle cause. Sfortunatamente però non dovreste andar troppo lontano per imbattervi in ragionamenti simili, per esempio in fatto di politica, ove dai lati più arbitrarj si arguiscono le conseguenze più inattendibili. Il tempo invece tira le legittime; ma sperereste per questo che il criterio prevalga alla passione? Nè prevalse in Bernardo Trevisano, il quale, dopo otto anni, conobbe illusoria anche quella strada, ma non rinnegò la meta: e si pose a nuovi lavori insieme con un teologo illustre, il quale pretendeva cavar la pietra filosofale dalla coparosa. Calcinavasi questa per tre mesi, poi infondeasi in aceto, distillato otto volte: passavasi al lambicco quindici volte il giorno per un anno. — Ah! se l'uomo mettesse a buoni intenti la perseveranza che adopera ad assurdi! La fatica, l'ansietà era ad aspettarsi che guastassero la salute del nostro alchimista, e per quattordici mesi gli si ostinò addosso una febbre, che minacciava torgli la pazzia colla vita. Della febbre guarì, non della pazzia: e un chierico del suo paese l'informò che maestro Enrico, confessore dell'imperatore, possedeva il segreto di preparare la pietra filosofale. Detto fatto, il nostro Bernardo passa le Alpi, è in Germania, e per difficilissimi mezzi e col procaccio di confratelli alchimisti, s'introduce presso il fortunato, e a _quanti plurimi_ ne ottiene dieci marchi d'argento e la rivelazione del processo. Per null'altro che per un _gran mercè_ noi lo regaleremo ai lettori. Recipe mercurio, argento, olio d'ulive, solfo: _misce_, fondi a fuoco moderato; cuoci a bagnomaria, rimescolando senza riposo. Dopo due mesi si asciutti in una storta di vetro, rivestita d'argilla, e il prodotto si tenga per tre settimane sopra ceneri calde. Allora vi si unisca piombo, si fonda il tutto al crogiuolo, e il prodotto si sottoponga alla raffinazione. Ciò fatto, que' dieci marchi d'argento dovevano trovarsi cresciuti di un terzo: — ma ahimè! al fine di tanto lavoro più non ne restavano che quattro. Il Trevisano, come un amante corbellato, si vantò disilluso, giurò non badar più a simili fantasie; parenti e amici fecero giubileo della sua guarigione, per quanto cara gli fosse costata; ma due mesi appena erano trascorsi, e rideccolo al lambicco, alle storte, al farnetico di prima. Persuaso però che alla grand'opera gli fossero indispensabili i consigli di gran sapienti, andò a interrogarli in Ispagna, in Inghilterra, in Scozia, in Germania, in Olanda, in Francia; poi in Egitto, in Palestina, in Persia, culla e sede di quelle arcane dottrine; a lungo s'indugiò nella Grecia meridionale, e visitava principalmente i conventi, depositarj dei libri e delle dottrine tradizionali; e coi più rinomati monaci travagliava alla grand'opera. Così era giunto ai 72 anni, avendo dissipato il ricavo del venduto suo patrimonio; di modo che nel 1472 approdava all'isola di Rodi senza denari nè bagaglio, ma con sempre maggior fiducia nella polvere, cercata tutta la vita. Oh possano averne altrettanta i cercatori di ben più utili spedienti! A Rodi fermava stanza un religioso, celebrato in tutto Levante come possessore del gran secreto; ma di avvicinarsegli non trovava più modo il nostro Bernardo, sprovvisto com'era del gran passa-pertutto, il denaro; se non che un mercadante veneziano, conoscente della famiglia di lui, gli prestò ottomila zecchini, e raccomandollo a quel professore. Tre anni lo tenne costui in istudj e sulle suste, onde preparare il magistero per mezzo d'oro e d'argento amalgamati con mercurio; alfine lo ammise al sommo secreto dell'arte ermetica; e nel gran codice della verità gli mostrò questo assioma: Natura si fa giuoco di natura, E natura contiene la natura. L'avete capito, lettori dabbene? ma se volete che ve lo butti in moneta, ciò significa che bisogna gettare alle spalle le illusioni, non impigliarsi in ciurmerie, e persuadersi che per far oro ci vuol oro, e tutta l'alchimia non giunse mai od ottenerne in fine più di quello che adoperò in principio. Crediamo che a simili conclusioni arriveranno gli odierni eterogenisti. Perdere a 77 anni l'illusione di tutta la vita, è pure straziante! Ma il conte Trevisano volle almanco giovare agli innumerevoli adepti della scienza ermetica occupando i sette anni che ancora sopravisse nello scrivere diversi trattati intorno a quella scienza: il più celebre dei quali è il _Libro della filosofia naturale de' metalli di messer Bernardo conte della Marca Trevisana_, che ognuno può leggere, ma che pochissimi leggeranno nel tomo II della _Bibliothèque des philosophes chimiques_. L'acquisto della verità è così penoso, che molti ripugnano a manifestarla chiara, limpida com'essi la colsero, e far così fruttare agli altri la propria sperienza. Anche il nostro conte, invece di palesare e confessare schietto i suoi inganni, si rinvolse per modo che molti cercarono in esso la scienza ermetica; e lo credono, volli dire, lo credettero un de' migliori maestri della grand'opera. Ma quell'assioma fondamentale, intorno a cui egli si raggira continuamente, induce noi a tutt'opposta credenza, e se c'inganniamo, ci è di conforto questo passo del libro suddetto: «Onde che io conchiudo, e credetemi. Lasciate le sofisticazioni e chi vi crede; fuggite le loro sublimazioni, congiunzioni, separazioni, congelazioni, preparazioni, disgiunzioni, connessioni, ed altre decezioni. E taciano quelli che vanno spacciando e preconizzando altro solfo che il nostro, il quale è latente nella magnesia; e che vogliono trarre altro argento vivo che dal servitore rosso, od altra acqua che la nostra, la quale è permanente, e non si congiunge che alla propria natura, e non bagna altra cosa se non l'unità della propria natura. Nè altro aceto v'ha che il nostro, nè altro regime che il nostro, nè colori altri che i nostri, nè altra che la nostra sublimazione, nè altra che la nostra soluzione, che la nostra putrefazione.» Se l'ammaestramento non vi pare abbastanza evidente, non so che dirvi; d'altra parte sarebbe stato inutile, giacchè non si dà evidenza, a cui la passione ceda. * * * * * A tre secoli di distanza, le storie ci offrono, ossia avrebbero dovuto offrirci un altro alchimista, ma della peggiore schiuma. Come non siamo certi del vero nome di Cagliostro, così neppure del costui; se non che ne' suoi giorni trionfali lo vediamo intitolarsi don Domenico Manuele Gaetano conte di Ruggero, napoletano, maresciallo di campo del duca di Baviera, generale, consigliere, colonnello d'un reggimento a piedi, comandante di Monaco, maggior generale del re di Prussia. Era nato, almen pare, a Pietrabianca presso Napoli; imparò di orefice, e nel 1695 fu iniziato all'alchimia tramutatoria, probabilmente da un Lascaris, venuto dalle isole greche, e rinomato in tutta Europa. Da costui egli ebbe la tintura bianca e la tintura gialla, per formar l'argento e l'oro; e che doveva essere un amalgama, il quale, messo al fuoco, e svaporandone il mercurio, lasciava in fondo al crogiuolo il metallo fino. Tutta la speranza di buon esito consisteva nel non adoperare il bilancino. Questa polvere era ben poca; e don Domenico vi suppliva colla destrezza; andò pel mondo annunziando di poter trasmutare metalli in gran quantità, facendone prova su piccolissima, e ottenendone fama: — la merce più capricciosa del mondo. Perlustrata Italia, per quattro mesi fece eccellenti affari a Madrid; ove l'ambasciadore di Baviera lo persuase a recarsi dall'elettore signor suo, il quale allora dimorava a Bruxelles come governatore. Vi andò, eccitò la meraviglia, e ottenne la confidenza dell'elettore Massimiliano, il quale preso dalle splendidissime promesse ch'esso gli faceva, gli concedette onorificenze, cariche, titoli e sovvenzioni per seimila fiorini. Ma l'adempimento delle promesse non sapea venir mai; onde scopertolo ciarlatano, il fe' buttar prigione. Due anni vi penò, poi riuscito a fuggire, non corse volgarmente a nascondersi, o andò fiaccamente a piagnucolare; anzi comparve trionfante a Vienna nel 1702; e qualche projezione gli riuscì così destramente, che tutta la Corte ne rimase stupefatta; e l'imperatore se lo prese a servigio. La morte di questo interruppe la sua splendida carriera; ma è un'arte de' ciarlatani il cader sempre in piedi. Di fatto fu tolto a stipendio dall'elettor Palatino, al quale ed alla imperatrice egli promise dare in sei settimane 71 milioni o la sua testa. Prima del termine egli fuggì; ed eccolo a Berlino, acquistandosi favore col dirsi perseguitato dall'Austria: e re Federico I, sentito il consiglio di Stato, non trovò da opporsegli, ed accettò le magnanime sue proposizioni. Con grande apparato e numerosi testimonj egli eseguì alcune tramutazioni, constatate a tutto rigore di prove; e promise fabbricare polvere di projezione quanta basterebbe per fare sei milioni di talleri. Convien dire fosse un abilissimo prestigiatore, se vediamo quanti ne rimasero illusi, e quante volte rifece il proprio credito e di quanti onori venne colmato; pure tante volte va la gatta al lardo, che alla fine vi lascia la zampa. La promessa da lui fatta al re non vedeasi mai ridotta, nè tampoco avvicinata all'effetto: e il re andava, se non spilorcio, però prudente nel regalarlo, talchè gli mancava l'oro necessario per far oro, quella natura che contiene la natura, come sentimmo dire dal conte Trevisano. Re Federico, informato delle precedenti birberie del Napoletano, lo fece chiudere nella fortezza di Custrino, coll'alternativa che adempisse le promesse se no la forca. La prima condizione gli era impossibile, e perciò fu processato e come reo di lesa maestà condannato al patibolo. La consuetudine germanica portava che i falsificatori (e sotto questo titolo comprendevansi anche gli alchimisti) con inumano scherzo si sospendessero vestiti d'orpello ad una forca indorata: ed in questo arnese perì a Berlino il 29 agosto 1709. Il re ebbe vergogna d'essersene lasciato ingannare o rimorso d'averlo punito sproporzionatamente, onde non sofferse più mai che quel nome fosse proferito in sua presenza. Costui fu l'ultimo tramutatore che la storia menzioni; i ciurmadori si volsero ad altre maniere d'inganni, che meriteranno storia anch'essi quando ne sia passata la stagione. 1856.